Due uomini viaggiano, uno in fronte all’altro, nella stessa carrozza del treno.


Uno tiene sulle gambe una scatola con dei fori sul coperchio.  Dopo un po’ di tempo passato in silenzio a fare congetture su cosa contenga la scatola, l’altro, divorato dalla curiosità, chiede:


“Mi scusi, ma non ho potuto fare a meno di notare la sua scatola. Cosa trasporta?” 
“Una mangusta”
“Una mangusta? E cosa se ne fa di una mangusta?”
“Vede, mia sorella è afflitta da sogni terribili in cui è minacciata da migliaia di serpenti. Le sto dunque portando questa mangusta per spaventarli.”


Il secondo uomo è perplesso.


“Ma quelli che sua sorella vede sono serpenti immaginari.”
“Infatti! Questa è una mangusta immaginaria”.

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Concept Disegno

The lost art of keeping a secret

Studio per il Gulliver di Cheap

Ecco oggi, mentre scappavo da solo lontano da Bologna, dallo studio, pur non sentendomi bene che lì, chino a disegnare, in un rifugio, uno spazio esterno così simile a quello interno, sento uscire dall’autoradio l’ennesima dichiarazione costruttiva del direttore artistico del non so cazzo che, che dice che questa pandemia, e relativa clausura, è un modo per immaginare nuove strategie di coinvolgimento del pubblico. Suggerisce il tale individuo per radio, che il pubblico deve essere portato dietro le quinte. Egli parla di un pubblico da serata anche un po’ altolocata. Si tratta dei melomani della lirica, un culto esoterico per iniziati.

Anche quel tizio che ha pubblicato il decalogo pruriginoso per le lezioni online, tale Andrea Marchetto (bisognerebbe scrivergli, davvero, o dedicargli una vignetta), che ti ho declamato l’altro giorno, usa la parola “teatralità”, oltre a abusare di termini presi in prestito dal gergo del fitness, quello lurido, da personal trainer.

Ci suggeriscono, pur essendo ben oltre la fine del secolo, di sfondare la quarta parete, svelare i meccanismo, dare al pubblico il backstage, illuminando (illuministi) i paludosi recessi dell’artista, fino a andare persino nei cessi assieme a sto poveraccio. Invece sono d’accordo con Nick Cave, ottimo predicatore (che proverbialmente poi razzola male mettendosi a nudo di fronte al suo pubblico, per scopi genuinamente alimentari, you cheap c**t), quando in una sua omelia disse che l’artista deve mantenere il mistero, tra lui e il pubblico.

Questo è il secolo giusto per cominciare a ricostituire il culto, ritrovare il rituale, predicare l’iniziazione, e non c’è niente di meglio che una bella epidemia globale, che ci può far correre al riparo nelle nostre catacombe, aggiungendo al culto un ingrediente fondamentale: il segreto.

Questo è il secolo giusto per rifugiarsi nella tana e, silenziosamente, come adepti fedeli a un culto comune, lavorare al riparo da chi per quattro soldi fa di sé un fenomeno da baraccone.

Il resto è preoccupante. Non questo.

Ush Ush! Sweetheart.

The eye of the beholder o Peeping Fucking Tom!